Partito Democratico, «ora è a rischio implosione»
L'analisi di Giuseppe Genoni, della segreteria provinciale.
Partito Democratico, «ora è a rischio implosione». L'analisi di Giuseppe Genoni della segreteria provinciale e responsabile organizzazione e tesseramento.
Partito democratico, «ora è a rischio implosione»
«Il Partito Democratico è a rischio implosione senza un congresso che esprima un nuovo segretario e voti una linea politica che guardi al futuro e all’Europa». Inizia così l'analisi di Giuseppe Genoni della segreteria provinciale del Pd e responsabile dell’organizzazione e del tesseramento. «Le elezioni dello scorso 4 marzo hanno rappresentato un vero e proprio terremoto del quadro politico». Ad un mese dal voto l’analisi non è cambiata?
«Il 4 marzo hanno vinto, con oltre il 50% dei voti, il M5S e la Lega, in una coazione giallo-verde antisistema, anti Europa e anti Euro, favorevole alla “chiusura”, al protezionismo, a Putin e a Visegrad. Dall’altra parte ha perso, su tutti, il Partito democratico, nonostante i positivi risultati nel governato del Paese».
Una débacle annunciata?
«La crisi del Pd, però, nasce da lontano. Nel 2008 perse con Veltroni. Nel 2013 con Bersani perse altri 8 punti percentuali (dal 33,1% al 25,4%) e 3,5 milioni di voti (in meno), tra l’altro proprio quando il M5S si presentò per la prima volta e ottenne il 25,5% con 8,6 milioni di voti. L’arrivo di Renzi alla guida del partito e del governo e il suo travolgente 41% delle elezioni europee del 2014 è stato l’unica eccezione al continuo calo di voti. Poi però tutto è finito con la fatidica vittoria del “No” al Referendum costituzionale del 4 dicembre 2016».
Tutta la colpa a Renzi?
Tutta la colpa a Renzi?
«In uno scenario così complesso, liquidare il risultato del Pd come la sconfitta del “renzismo” e di Renzi è superficiale e fuorviante. Se ragioniamo in questo modo, l’unico insegnamento che possiamo trarre è quello, un po’ generico, di “riprendere il dialogo con il popolo della sinistra” o “con i corpi intermedi”. La storia ci dice però che non basta più».
Cosa è successo, allora? Dove il Partito Democratico ha sbagliato?
«L’analisi è complessa: su tutte, ci sono due cause. La prima è legata all’attività di governo, di buon governo che non ha premiato. Innanzitutto è dal 1994 che nessun governo “uscente” è stato riconfermato alle elezioni. Poi le tante cose fatte sono state considerate più come un atto dovuto che motivo di merito. Le riforme sono state poco sentite o perché troppe e calate dall’alto oppure perché reputate inutili o addirittura ingiuste da coloro che non ne hanno beneficiato. Si è sbagliato a enfatizzare che la crisi era finta. Anche se la ripresa economica è un fatto, molti, troppi, vivono una situazione di disagio e sofferenza e hanno bisogno di risposte per il futuro».
Ma a Novara i dem hanno resistito.
«Un dato interessante arriva dalla distribuzione del voto in Italia. Il PD ha ottenuto risultati migliori al nord e nelle grandi città (Milano, Torino, Firenze, o Roma). Nella stessa città di Novara il voto del 4 marzo è migliore di quello delle elezioni comunali del 2016. In altre aree del Paese il voto “contro” il Pd è stato più marcato, a conferma, tra l’altro, che le riforme sono state poco sentite e non vissute come un concreto miglioramento delle proprie condizioni».
«I continui dissensi e i litigi hanno portato il Pd ad essere considerato poco credibile»
E’ l’unico motivo?
«Vi è però una seconda causa, forse ancora più importante della prima. Riguarda la conflittualità presente nel partito dagli ultimi quattro anni. I continui dissensi e i litigi hanno portato il Pd ad essere considerato poco credibile. Molti elettori hanno quindi deciso di “punirlo” votando altri partiti o addirittura non votandolo, pur condividendone la proposta politica e l’azione di governo. In un partito davvero democratico (e che non si definisce solo come tale) è essenziale il confronto sulle idee. Al termine del confronto però si vota e da quel momento si rispetta la decisione dalla maggioranza. Non è stato così. È sotto gli occhi di tutti l’esempio, deleterio e deprimente, del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. La sera della sconfitta c’è stato chi ha brindato in televisione per poi andarsene dal Pd, c’è stato anche chi ha brindato di nascosto ed è rimasto per indebolirlo ancora».
Che fare, ora? Quale proposta politica?
«Il progetto di riforma del Paese, per renderlo competitivo ed efficiente, è rimasto incompiuto. Questo progetto deve proseguire senza arretramenti; smontare ora le riforme, tra l’altro, creerebbe danni irreparabili. Nello stesso tempo, è indispensabile da subito aprire all’Europa e alle forze politiche degli altri paesi europei che fanno propri i valori laici della liberal-democrazia, del riformismo e dell’equità sociale: da qui deve ripartire il PD del futuro. Le iniquità e le diseguaglianze possono essere davvero sconfitte solo se coniugate, in una sintesi difficile ma non impossibile, con l’efficienza del sistema e lo sviluppo dell’economia; il liberismo esasperato e la concentrazione delle ricchezze in mano a pochi possono essere superati e arginati solo in un ambito europeo e con alleati politici sovranazionali. E sarà compito del Pd quello di rivolgersi, soprattutto, a quel 50% di italiani che respingono il modello giallo-verde di società, quello di Grillo e Salvini ispirato alla decrescita-poco-felice, all’assistenzialismo, o a quello autoritario e di chiusura anacronistica delle frontiere».
Quali proposte per l'organizzazione del Pd?
E quali proposte per l’organizzazione del Pd?
«Per farcela, dovremo finalmente mettere mano al funzionamento del partito nel suo insieme, a partire dalla sua forma; nello stesso tempo evitare che agli sgraditi “gigli magici” si sostituiscano i vecchi e collaudati “caminetti” perché entrambi non hanno portato a vincere le elezioni. Tra le prime cose, ripensare al funzionamento dei circoli, da troppi anni abbandonati e con sempre meno iscritti: ispirarci ad un modello di partito aperto e contendibile, nei fatti e non solo nelle parole, così che il nuovo circolo diventi un contenitore di idee e di istanze della cittadinanza, retto da regole semplici (ad esempio, chi partecipa decide e vota, chi non partecipa non vota anche se iscritto, cariche elettive votate con primarie aperte) in cui gli iscritti-elettori possono contendersi proposte di governo o idee di città, apportando confronto di opinioni e competenze nuove e qualificate».
Un congresso, quindi?
«Sì. L’esito del voto ha cambiato tutti gli equilibri nazionali e locali fissati nel 2017. Diamoci sei mesi per riflettere e formulare proposte, poi la parola passi agli iscritti e agli elettori perché votino la linea politica dei prossimi anni ed eleggano un nuovo segretario e una nuova classe dirigente».
Sandro Devecchi