A pranzo con Renato Pozzetto

A pranzo con Renato Pozzetto
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NOVARA - L'incontro è all'Osteria del Castello a Balocco crocevia tra Biellese, Novarese, risaie e valli. Mariangela Gusmerini e Carlo Galli  ci servono verdure di stagione passate in padella, salame e prosciutto, risotto al Barolo, tagliata e una crema di amaretti deliziosa, il tutto innaffiato di buon vino piemontese targato “Barbera”. Renato Pozzetto è il solito, jeans e polo in cashmere, nasconde i suoi 76 anni dietro un volto senza rughe, sempre uguale: lo sguardo svagato, un po’ surreale, la mente affollata di pensieri silenziosi, le parole misurate con quell’accento  da  milanese padano che tutti conosciamo per averlo sentito in tivù, al cinema e anche al teatro. Ecco, il teatro. Pozzetto continua imperterrito a calcare il palcoscenico. L’ultimo spettacolo è quello che porta in scena anche a Novara, sabato 19 alla sera e domenica 20 al pomeriggio, per il suo pubblico di affezionati  ammiratori e - perché no? - di nuovi. Il titolo è “Siccome l’altro è impegnato”, una summa della sua vita d’artista a tutto tondo. E’ la cinquantesima replica in un paio d’anni dopo l’esordio al Nazionale di Milano «che ha avuto sin da subito – racconta fra un boccone e l’altro Pozzetto – un successo che non era scontato, tant’è che ho dovuto fare sei repliche. E da lì, avanti…». Da solo, a teatro, a fare cine-cabaret, quasi come una volta.

Ma è la storia di un personaggio dall’infinita versatilità dei ruoli a rendere questo incontro unico e particolare. Tanto più che il  Pozzetto - con l’ombrello e la gallina - è un lombardo anche un po’ piemontese, molto attaccato ai valori della tradizione e della famiglia e ai tanti amici in giro per queste lande. Si parte da lontano. Sfollato da Milano, a causa della guerra, con genitori e fratelli a Gemonio («Sì, il paese di Bossi»),  il piccolo Renato  cresce in simbiosi con la “sua metà”, Cochi Ponzoni, anche lui in fuga dalla città con la famiglia in quel paese del Varesotto a due passi dal lago Maggiore. Due ragazzini in crescita con la passione per la chitarra, il primo studente da geometra, il secondo da ragioniere, due diplomi coi quali un lavoro è quasi garantito nella “Milan” degli anni del boom alla fine dei Cinquanta. 
Il ritorno sotto la Madonnina avviene con l’intenzione di impiegare la passione per musica e parole, «per guadagnare qualche soldo, tanto un tetto ce l’avevamo a casa coi genitori e una minestra non mancava di sicuro». E’ così che, dopo i primi ‘esperimenti’ all’Osteria dell’Oca e al Cab64, il duo Cochi e Renato approda al Derby Club. Sono gli anni d’oro, la metà dei Sessanta.  «Il Derby – ricorda Pozzetto – era l’allora snodo del primo cabaret, dove si suonava jazz, dove cantavano Celentano e Mina, dove tutti noi artisti in erba ci siamo formati ed abbiamo sperimentato. Con chi? Il nostro gruppo era formato da Enzo Jannacci, Felice Andreasi, Lino Toffolo, Dario Fo...». Ovvero, la storia del cabaret e del teatro, che nella “casa” del Derby ha dato la stura anche ai Paolo Villaggio, ai Gufi di Nanni Svampa e Lino Patruno, e più avanti a Diego Abatantuono, Massimo Boldi, per finire con Claudio Bisio.

Quando, con Cochi, avete scoperto che quello del cabaret era il vostro mestiere? 
«Quando ci hanno chiamato in Rai per “Quelli della domenica”. Era la tivù, una novità, un trampolino di lancio. Dovevamo fare sei puntate, fu un successo. Ne abbiamo fatte 24. Era il 1966. Lo spettacolo? Facevamo le nostre cose, carine, scambi di battute che raccontavano il presente in maniera quasi inverosimile. Tra Derby e televisione è stata una corsa. L’ombrello e la canzone della gallina,  la “bela bionda” e “la vita e la vita” sono brani che hanno fatto la storia dello spettacolo. E poi c’è stata Canzonissima con la Carrà e l’approdo che ha coronato il tutto, il cinema».

La gallina e l’ombrello: due simboli, di che cosa? 
«Sono il racconto surreale e sorprendente del pennuto e di una vita che “l’è bela se hai l’ombrela”, che  se non ce l’hai son cazzi. Due soggetti paradigmatici, dal significato sociale».
Roberto Azzoni 

Leggi tutta l'intervista sul Corriere di Novara di giovedì 10 novembre 2016

NOVARA - L'incontro è all'Osteria del Castello a Balocco crocevia tra Biellese, Novarese, risaie e valli. Mariangela Gusmerini e Carlo Galli  ci servono verdure di stagione passate in padella, salame e prosciutto, risotto al Barolo, tagliata e una crema di amaretti deliziosa, il tutto innaffiato di buon vino piemontese targato “Barbera”. Renato Pozzetto è il solito, jeans e polo in cashmere, nasconde i suoi 76 anni dietro un volto senza rughe, sempre uguale: lo sguardo svagato, un po’ surreale, la mente affollata di pensieri silenziosi, le parole misurate con quell’accento  da  milanese padano che tutti conosciamo per averlo sentito in tivù, al cinema e anche al teatro. Ecco, il teatro. Pozzetto continua imperterrito a calcare il palcoscenico. L’ultimo spettacolo è quello che porta in scena anche a Novara, sabato 19 alla sera e domenica 20 al pomeriggio, per il suo pubblico di affezionati  ammiratori e - perché no? - di nuovi. Il titolo è “Siccome l’altro è impegnato”, una summa della sua vita d’artista a tutto tondo. E’ la cinquantesima replica in un paio d’anni dopo l’esordio al Nazionale di Milano «che ha avuto sin da subito – racconta fra un boccone e l’altro Pozzetto – un successo che non era scontato, tant’è che ho dovuto fare sei repliche. E da lì, avanti…». Da solo, a teatro, a fare cine-cabaret, quasi come una volta.

Ma è la storia di un personaggio dall’infinita versatilità dei ruoli a rendere questo incontro unico e particolare. Tanto più che il  Pozzetto - con l’ombrello e la gallina - è un lombardo anche un po’ piemontese, molto attaccato ai valori della tradizione e della famiglia e ai tanti amici in giro per queste lande. Si parte da lontano. Sfollato da Milano, a causa della guerra, con genitori e fratelli a Gemonio («Sì, il paese di Bossi»),  il piccolo Renato  cresce in simbiosi con la “sua metà”, Cochi Ponzoni, anche lui in fuga dalla città con la famiglia in quel paese del Varesotto a due passi dal lago Maggiore. Due ragazzini in crescita con la passione per la chitarra, il primo studente da geometra, il secondo da ragioniere, due diplomi coi quali un lavoro è quasi garantito nella “Milan” degli anni del boom alla fine dei Cinquanta. 
Il ritorno sotto la Madonnina avviene con l’intenzione di impiegare la passione per musica e parole, «per guadagnare qualche soldo, tanto un tetto ce l’avevamo a casa coi genitori e una minestra non mancava di sicuro». E’ così che, dopo i primi ‘esperimenti’ all’Osteria dell’Oca e al Cab64, il duo Cochi e Renato approda al Derby Club. Sono gli anni d’oro, la metà dei Sessanta.  «Il Derby – ricorda Pozzetto – era l’allora snodo del primo cabaret, dove si suonava jazz, dove cantavano Celentano e Mina, dove tutti noi artisti in erba ci siamo formati ed abbiamo sperimentato. Con chi? Il nostro gruppo era formato da Enzo Jannacci, Felice Andreasi, Lino Toffolo, Dario Fo...». Ovvero, la storia del cabaret e del teatro, che nella “casa” del Derby ha dato la stura anche ai Paolo Villaggio, ai Gufi di Nanni Svampa e Lino Patruno, e più avanti a Diego Abatantuono, Massimo Boldi, per finire con Claudio Bisio.

Quando, con Cochi, avete scoperto che quello del cabaret era il vostro mestiere? 
«Quando ci hanno chiamato in Rai per “Quelli della domenica”. Era la tivù, una novità, un trampolino di lancio. Dovevamo fare sei puntate, fu un successo. Ne abbiamo fatte 24. Era il 1966. Lo spettacolo? Facevamo le nostre cose, carine, scambi di battute che raccontavano il presente in maniera quasi inverosimile. Tra Derby e televisione è stata una corsa. L’ombrello e la canzone della gallina,  la “bela bionda” e “la vita e la vita” sono brani che hanno fatto la storia dello spettacolo. E poi c’è stata Canzonissima con la Carrà e l’approdo che ha coronato il tutto, il cinema».

La gallina e l’ombrello: due simboli, di che cosa? 
«Sono il racconto surreale e sorprendente del pennuto e di una vita che “l’è bela se hai l’ombrela”, che  se non ce l’hai son cazzi. Due soggetti paradigmatici, dal significato sociale».
Roberto Azzoni 

Leggi tutta l'intervista sul Corriere di Novara di giovedì 10 novembre 2016

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