Family Like: una nuova geografia del territorio ritagliata sulle famiglie
Risposte concrete a genitori e bambini.
Se i genitori si sentono soli quello che possiamo fare è aiutarli a creare legami, nell’ottica di creare una comunità capace di crescere insieme i propri figli
Quante volte i genitori di bambini piccoli o di adolescenti si sentono soli di fronte alle inevitabili difficoltà di crescere i figli? E questo accade ancora di più se esistono situazioni di disagio. Una solitudine spesso aggravata dalla mancanza di proposte educative integrate sul territorio e lasciata alle singole iniziative di scuola, servizi psico socio educativi, mondo degli oratori, universo sportivo, organizzazioni del tempo libero.
Il progetto
Family Like, un progetto triennale che si è concluso nel 2019, sostenuto dalla seconda edizione del bando Welfare di Comunità di Fondazione Cariplo, è nato proprio per favorire una sensibilizzazione diffusa sull'importanza di affrontare le tematiche educative come questioni delle comunità locali e non come problemi di pertinenza delle sole famiglie o delle singole agenzie educative.
Il progetto (realizzato dalla cooperativa Vedogiovane, il CISS Borgomanero, Il Comune di Arona, il Cisas, la cooperativa Aurive e la rete Non di solo pane) è stato sviluppato nel Nord della provincia di Novara, un territorio di 155.000 abitanti distribuiti tra 46 comuni sparsi tra Lago Maggiore e Lago d’Orta, con l’intento di trasformarlo in un territorio “Family friendly”.
Un percorso che si è sviluppato facendo rete tra famiglie, gruppi informali, enti pubblici e realtà private per offrire soluzioni concrete ai problemi che le famiglie si trovano ad affrontare quotidianamente.
I laboratori
Nel tempo, sono state messe in campo diverse azioni, come i “Laboratori di interesse”: 14 tavoli aperti per aggregare soggetti impegnati in interventi a favore di minori e famiglie, nell’ottica di promuovere un loro ruolo attivo nell’ambito delle politiche rivolte ai minori. Ai tavoli hanno partecipato attivamente 208 genitori, con bambini piccoli ma anche di preadolescenti e adolescenti. L’obiettivo dal principio è stato quello di renderli parte integrante di una governance di un progetto locale che si occupa di minori. Dal confronto sono emerse nuove attività e servizi al territorio: varie azioni di socializzazione, attività formative, un doposcuola, laboratori genitori e figli per bambini.
In alcuni casi, i Laboratori hanno contribuito a creare dei veri e propri “Punti di comunità, a partire dalla rigenerazione di luoghi esistenti, come il Family Cafè di Arona e la Casa di Paglia di Fontaneto che hanno integrato le azioni e i servizi coprogettati con le famiglie o il neonato spazio Made in Ghemme in cui adulti volontari e adolescenti collaborano per la gestione dello spazio. Il progetto ha sperimentato in 4 realtà anche il modello di4 “Centri per minori diffusi” aprendoli al territorio con attività rivolte a tutte le famiglie con minori, e non solo ai ragazzi in carico ai servizi sociali. Family Like grazie alla collaborazione attiva di un centinaio di realtà locali, ha saputo coinvolgere complessivamente nelle sue diverse attività 1.300 cittadini e visto nascere e crescere un portale internet, unico per il territorio, che aggrega, orienta e informa sulle iniziative presenti per le famiglie del territorio.
Abbiamo chiesto a Paolo Granetto, responsabile della cooperativa sociale Vedogiovane, che è stato il coordinatore di Family Like, di raccontarci le azioni principali, la reazione del territorio, i progetti sviluppati, i momenti più significativi ma anche le criticità che il percorso ha portato alla luce.
Prima dell’inizio del progetto, quali erano i problemi principali del vostro territorio ai quali volevate dare una risposta?
Ci siamo basati principalmente sulle risposte emerse da un questionario che abbiamo distribuito a 200 famiglie del territorio e ovviamente sulla nostra esperienza come cooperativa. Le domande riguardavano eventuali difficoltà legate ai compiti educativi e di crescita dei figli. Quello che è emerso è stato un grande senso di solitudine e molta incertezza di fronte al futuro.
I genitori si dimostravano scarsamente informati rispetto alle risorse che esistevano sul territorio, si ponevano problemi relativi allo scarso rendimento scolastico dei figli e al timore di non sapere con chi parlarne, ma non solo: spesso mostravano di non conoscere nemmeno i luoghi dove poter far fare sport e altre attività ai ragazzi. Abbiamo notato molta ritrosia a parlare dei propri problemi e nell’esplicitare i propri bisogni. Siamo partiti da qui e abbiamo individuato uno spazio di possibili risposte nella condivisione di queste problematiche e nella ricerca comune di possibili soluzioni. Se i genitori si sentono soli quello che possiamo fare è aiutarli a creare legami, nell’ottica di creare una comunità capace di crescere insieme i propri figli abbiamo pensato.
Quali sono state le azioni principali realizzate dal progetto?
Sono state tante, ma se devo pensare alle principali direi: la creazione del portale Family like(https://www.familylike.it/) un luogo virtuale di scambio ma soprattutto informativo, in grado di riportare tutte le iniziative e le attività che sul territorio potevano interessare le famiglie con bambini e adolescenti come attività sportive, sostegno scolastico, eventi vari. Questo perché dal questionario era emersa proprio una carenza informativa. Un’altra azione importante è stata la realizzazione dei Laboratori di interesse ovvero gruppi creati dal basso e formati da genitori e da soggetti della rete locale (sindaci, parroci, associazioni di volontariato, negozianti particolarmente impegnati nel territorio) che a livello microlocale quindi di Comune si occupano di una particolare problematica e provano a dare una risposta. Abbiamo dato vita a 14 laboratori di interesse: per esempio nel Comune di Cureggio un laboratorio ha avviato attività per bambini piccoli nella biblioteca; in un altro caso un laboratorio ha organizzato attività di sensibilizzazione di tipo ambientale nelle scuole per poi durante l’estate realizzare attività nel bosco con le famiglie; in un altro Comune ancora un gruppo di genitori ha creato un doposcuola, interamente gestito da volontari. A Ghemme, un gruppo di genitori ha collaborato con gli operatori sociali per dare vita a “Made in Ghemme”, nato come punto di comunità dove si tenevano attività pomeridiane rivolte ai ragazzi ed è poi cresciuto come luogo in cui si incontrano ragazzi e genitori e si organizzano attività per il territorio, come la festa multiculturale “Il buffet senza frontiere”, il mercato dello scambio, incontri di formazione per genitori e altre attività, come quelle di supporto scolastico che hanno dimostrato di incontrare un bisogno diffuso tra le famiglie e i ragazzi del territorio, perché alcuni di loro avevano importanti difficoltà nell’approcciarsi alla scuola.
Adesso che il progetto è terminato, che cosa è cambiato grazie agli interventi?
La pandemia ha naturalmente sconvolto tanti progetti ma il risultato più significativo, a nostro avviso, è la consapevolezza di avere gettato i semi di una collaborazione tra famiglie e genitori e servizi e istituzioni. MI spiego meglio: le azioni dei servizi e delle istituzioni ci sembrano adesso più orientate a creare e facilitare le relazioni tra genitori. Si tratta di un cambiamento culturale all’interno dei servizi e di alcune istituzioni, che si sono dimostrate più in grado di coinvolgere le famiglie e creare situazioni che facilitano la costruzione di legami.
Ma il fatto che i laboratori continuino in autonomia anche dopo la fine del progetto dimostra che c’è solidità. Il doposcuola di Divignano è attivo, così come i laboratori nella biblioteca di Cureggio e Made In Ghemme, pandemia permettendo. Significa che il seme ha germogliato.
Tra tutte le innovazioni introdotte grazie a Family Like, qual è stata la più significativa?
Penso sempre ai laboratori di interesse, un’iniziativa che è stata anche inizialmente non compresa proprio perché non è subito “concreta”. Un laboratorio di interesse è un processo, non hai subito il risultato, lo vedi nel tempo, mentre spesso è più facile ragionare su un bisogno conclamato. Se questo bisogno lo affronti dal basso, lo fai affiorare, il risultato è più lento però secondo me è più efficace. Se sono i genitori stessi a riconoscere le proprie necessità e individuare le soluzioni, magari c’è bisogno di più tempo perché il risultato venga messo a sistema. Ma il fatto che i laboratori continuino in autonomia anche dopo la fine del progetto dimostra che c’è solidità. Il doposcuola di Divignano è attivo, così come i laboratori nella biblioteca di Cureggio e Made In Ghemme, pandemia permettendo. Significa che il seme ha germogliato. E poi, oltre alla dimensione partecipativa dei laboratori di interesse è importante il livello di interazione fra formale e informale che il progetto è stato in grado di attivare. Per la prima volta abbiamo visto su questo territorio 150 volontari attivati da un unico progetto, decine e decine di riunioni, spesso serali, che sono state fatte con la compresenza del sindaco o di un altro amministratore comunale, del rappresentante dell’associazione, del parroco, insieme a semplici cittadini o genitori, interessati o proponenti le iniziative in oggetto. Questa dimensione partecipativa ha dovuto trovare nuove forme di interlocuzione tra il pubblico, in particolare l’amministrazione comunale, e il privato, e cioè cittadini e associazioni, molto complicate a volte, perché hanno richiesto un parziale cambiamento dei ruoli (l’amministratore che si fa da parte, pur avendo promosso una progettazione). Per la prima volta abbiamo visto cittadini che convocavano il sindaco, e non viceversa.
Che cosa è accaduto che non era stato previsto?
Diversi “imprevisti” positivi: non avevamo previsto la possibilità di moltiplicare i laboratori interesse, eravamo partiti con un obiettivo di 9 e siamo arrivati a 14 e poi ne sono nati ancora altri. Si è moltiplicata l’esigenza, chi ha visto come funzionavano ha apprezzato, come il fatto che a Ghemme dopo pochi mesi arrivasse un gruppo di genitori, solo parzialmente conosciuto prima, che ci proponesse autonomamente di aprire un’attività di scambio e dono sul territorio. O l’adesione massiccia di ragazzi al progetto di Castelletto Ticino, o più in generale che le attività di tipo formativo abbiano preso forma, nella quasi totalità dei casi, da una progettazione “dal basso”, e che quindi queste iniziative sono state in grado di rispondere alle esigenze dei genitori, perché sono state pensate e organizzate direttamente da loro. Non avevamo previsto inizialmente la possibilità di collaborare con ragazzi e genitori stranieri per organizzare una festa multiculturale, ormai diventata evento annuale di quel territorio.
Quali sono le principali difficoltà che avete incontrato?
La difficoltà più grande che abbiamo incontrato è stata nel riuscire a coinvolgere le istituzioni, in particolare i Comuni. C’è molta frammentarietà sul nostro territorio ed è difficile ragionare a livello sovracomunale se non sui livelli essenziali, cioè destinati alle famiglie vulnerabili. Però esistono famiglie che, anche se non possono essere classificate come vulnerabili, “non se la passano troppo bene”, magari hanno la casa, il lavoro, ma stanno vivendo una separazione dolorosa, o non possono più contare sull’aiuto di un nonno.
Poi anche quella di riuscire a creare un senso di appartenenza al progetto complessivo. Le famiglie coinvolte, i volontari, che pur sono stati molti, si sono sentiti partecipi del singolo progetto attivo nel proprio Comune, non siamo riusciti a creare un movimento più diffuso e generale. Siamo stati molto nei territori ma non siamo riusciti a creare legami tra i diversi territori, per cui i laboratori di interessi e le azioni hanno avuto ricadute più sul singolo Comune che in modo trasversale, fatta eccezione per il laboratorio di interesse sui Concerti in famiglia, un’esperienza bellissima che si è svolta in vari Comuni e che per la prima volta ha visto i genitori partecipanti come fruitori attivi di iniziative culturali: un ciclo di incontri con musicisti italiani e internazionali di alto livello che hanno accettato l’idea di esibirsi in un contesto informale, rivolgendosi contemporaneamente a un pubblico adulto e ai bambini: le famiglie hanno così assistito ai concerti con il supporto di un servizio di animazione, gestito da educatori, in uno spazio attrezzato dove i bambini potevano andare a giocare fra un brano e l’altro, o fare merenda.
Che cosa resta sul territorio che prima non c’era?
Restano molte azioni create grazie ai laboratori, resta il portale Family Like che informa su iniziative e attività destinate alle famiglie e restano alcuni cambiamenti all’interno dei servizi istituzionali, grazie all’azione “Centri minori diffusi”. Per esempio un centro educativo oggi gestisce anche un progetto di scambio giochi che si chiama “Lo scambiattolo”: un bambino porta tre giochi che non utilizza più e in cambio ne prende uno solo perché gli altri due che lascia sono destinati a bambini che ne hanno bisogno. Sembra un piccolo cambiamento ma non lo è, perché è un modo di lavorare sull’integrazione tra minori con disagio e minori sul territorio non “classico”. Lo stesso avviene a Castelletto al centro gestito dal Cisas: ora vengono proposte attività aperte al territorio e quindi sono solo rivolte a situazioni di disagio più conclamato. È passato il messaggio che tutte le famiglie possono avere bisogno in qualche fase della loro vita, e anche che per lavorare sul disagio è necessario operare perché una comunità diventi più inclusiva e non necessariamente delegare questo aspetto solo ai cosiddetti “esperti”. I problemi che riguardano la crescita di un bambino a volte non si risolvono con un neuropsichiatra ma aiutando i genitori a sentirsi meno soli.
Quali sono i progetti futuri a cui state pensando?
Sulla base di quanto sperimentato in Welfare in Azione con Family Like, stiamo portando avanti come cooperativa insieme ai servizi sociali il progetto We.ca.re, che è anche il nome del finanziamento regionale: è rivolto a tutti gli asili nidi del territorio e prevede azioni di sostegno alla genitorialità. Abbiamo attivato dei laboratori di interesse in alcuni asili nido, realizzando momenti formativi, ovvero una serie di incontri dedicati ai genitori con bambini piccoli. Le famiglie portano i loro bisogni che, in questa fase particolare, sono molto legati alla gestione della pandemia, alle paure dei bimbi, alle limitazioni dei momenti di gioco. E poi portiamo avanti un progetto per “esportare” in altri 4 comuni del novarese, che non erano stati coinvolti nel progetto Family Like, la pratica dei Laboratori di Interesse, applicandola ad altri contesti e trasferendo quello che abbiamo appreso ad altre realtà.
C’è una storia che più di ogni altra racconta la trasformazione che il progetto ha generato?
Il laboratorio di Made in Ghemme è stata secondo noi l’azione più generativa del progetto. Ha coinvolto molti volontari, tra cui anche mamme straniere. E continua a vivere e a essere una realtà partecipata dai ragazzi del paese, grazie appunto soprattutto all’attività costante dei volontari, come Pierluigi.
La testimonianza: Pierluigi Zuin, un papà volontario dello Spazio Ghemme.
Sono un papà di tre figli: una ragazza di 25 anni, un maschio di 23 e una ragazza adottiva di 21 anni e abitiamo a Ghemme. Circa quattro anni fa ho letto su Facebook l’appello di Sebastiano, l’educatore che gestisce lo Spazio Made in Ghemme, cercavano volontari e mi sono presentato. Io lavoro in un supermercato e, per via dei turni, ho molti momenti liberi il pomeriggio. Sono arrivato convinto di essere molto bravo a gestire i ragazzi, ho sempre fatto il volontario in oratorio, organizzavo spettacoli teatrali. Invece ho dovuto fare i conti con una realtà diversa, conquistare la fiducia dei ragazzi. Non avevo un ruolo lì, non ero quello che “faceva teatro” e non tutti i ragazzi erano facilissimi o avevano voglia di costruire una relazione con me. Mi sono buttato sullo sport: soprattutto sullo street football, niente regole anzi regole decise lì per lì, come si usa tra ragazzi. È piaciuto molto, abbiamo organizzato poi un torneo. Per fare il volontario nello Spazio Made in Ghemme mi sono dovuto mettere in discussione, cercare nuove modalità perché, soprattutto in una prima fase, lo spazio raccoglieva ragazzi che avevano difficoltà a scuola, che compivano atti di vandalismo, e che facevano fatica a relazionarsi con gli adulti. Nel tempo quel posto è servito a proporsi come uno spazio che i ragazzi potessero riconoscere come loro e in cui loro si riconoscessero, hanno smesso di fare vandalismo. Ora lo vivono come il “loro” spazio dove relazionarsi con persone adulte che non sono genitori e nemmeno insegnanti. Alle volte hanno voglia di partecipare alle attività, altre no, e qualche volta per i volontari è frustrante, ma penso che sia normale. Funzionano molto bene le attività che propongono loro e noi cerchiamo sempre di incoraggiare le loro iniziative.
Un progetto che ha saputo dare risposte concrete al senso di solitudine delle famiglie nel crescere i propri figli, mettendole al centro e costruendo insieme una rete per condividere risorse e soluzioni.