L’INTERVISTA Parla Riccardo Bertoncelli

L’INTERVISTA Parla Riccardo Bertoncelli
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Avete presente quei monumenti nazionali davanti ai quali non possiamo che inchinarci? Ecco, il novarese Riccardo Bertoncelli è uno di questi. Un mostro sacro del rock mondiale. Nel senso che lo pratica da decenni non da musicista, ma come storico della musica del ‘900 e scrittore. La sua casa non può che essere il tempio della seconda arte: dischi che tappezzano le pareti, casse per diffondere note e suoni. Non chiamatelo critico, «parola che piace agli altri per sfottere, c’è malfidenza verso i critici e a questa partita non voglio partecipare», ma neppure giornalista. Docente sì, visto che è prof a un master della Cattolica: «Insegno come si è evoluta la comunicazione nel campo del rock, passando per giornali e libri».

Esordio d’obbligo. Magari non sono canzoni che toccano le tue corde ma siamo sull’attualità. Il Festival si è appena concluso. Un tuo giudizio su Sanremo 2017.

«Non ho visto una scena. Non per fare lo snobbone, ma io mi interesso di musica e da anni non è più un festival di musica. Una specie di evento, c’è la casa ma manca tutto il resto. Un rito che si ripete ogni anno, con migliaia di pellegrini. E grandi ascolti. Tipico della nostra epoca: la musica non può rimanere solo musica. È teatro, gossip… È una passerella, passa una specie di attualità. A metà degli anni Settanta il festival entrò in crisi. Un format che non funzionava più. Senza diretta tv. Poi negli anni ’80 si reinventò in altre forme. Non lo vedo da quando ero ragazzo. Ma so che a volte vincono canzoni intelligenti. Come è stato per gli Avion Travel».

Nel 2017 festeggi 48 anni di attività. Guardando indietro come leggi il tuo percorso?

«Ho una gag che voglio far diventare anche scenica. Mi sento come il marito di Claudia Cardinale in “C’era una volta il west”. Il cattivaccio viene ammazzato da Henry Fonda. Rimane la vedova che si vede recapitare una serie di cose, blocchi di legno, cemento… Che stava facendo quest’uomo? Stava costruendo una stazione di posta perché aveva compreso che lì passava il treno e che quel posto deserto lo avrebbe arricchito. Mi sento come lui perché quando avevo 17 anni ho capito d’istinto che il rock non sarebbe mai passato di moda, sarebbe diventato qualcosa di solido, un pezzo di storia del Novecento. Così mi sono posizionato lì, purtroppo senza Claudia Cardinale! Ho cominciato a scrivere un libro che allora era una cosa diversa. Oggi è facile farlo, ma ieri era una impresa per argomenti che non erano considerati degni di finire in un libro. La musica giovane sembrava una cosetta. Questo mi ha consentito di giocare straordinariamente in anticipo. Tanto che già il decennio dopo mi chiamavano il decano».

Hai iniziato quanto c’erano i dischi di vinile, ormai oggetto di collezionismo. Le musicassette sono andate in pensione. E sembrano già superati anche i cd. Un’evoluzione tecnologica non indifferente. Questione solo di forma o anche di sostanza? Quanto è cambiata la musica in questi anni? E come è cambiato il tuo mestiere?

«Il format condiziona sempre la musica. Il vinile era già un miglioramento rispetto ai 45 giri con cui ho iniziato: 3’ o 4’ e 3’ o 4’. L’album ti consentiva 20’ + 20’, il cd in teoria di più, le cassette non le ho mai prese in considerazione. Il cd ha tradito una serie di aspettative. Fare tutti dischi doppi era troppo. Perché finivano per essere pieni di riempitivi. Il cd è una miniatura, il vinile era bello e ci potevi lavorare, un prodotto di grande fascino. Una specie di favola moderma. Come è cambiato il mio lavoro? Profondamente. Sulla scrivania ho sempre avuto a portata di mano i miei strumenti, adesso questo fa ridere. Ogni computer ha un lettore di cd, quindi puoi scrivere e ascoltare. E se devo cercare qualcosa uso Spotify.

Tutto è diventato più semplice. Da giovane avevo il terrore di rimanere senza giradischi e quindi dovevo avere un doppio. Terrore che oggi non ho più. Questo se vuoi è un aspetto folkloristico del mio lavoro, cambiato anche nell’approcio delle cose: la musica oggi la ricevi rapidissimamente per via digitale.

Un altro mondo. Da giovane scrivevo i pezzi sulla macchina da scrivere, con la carta carbone per tenere la brutta e facevo un viaggio a Milano per portare le cartelle. Quando facevo il giornalista sportivo dettavo alla dimafonista. A un Giro d’Italia, forse del 1983, incontrai inviati della Stampa che avevano un fax, apparecchio che io non conoscevo. Quello è stato il primo passo. E dire che dieci anni dopo è stato pensionato. Il mestiere è cambiato a tanti livelli: come modo di produzione, di ascolto. Mi sono stancato di recensire dischi. Oggi c’è l’ansia di arrivare subito sul pezzo. I dischi una volta duravano anni, ora giorni oppure ore. C’è una offerta che spiazza. Non ho più voglia di correre dietro ai dischi che escono. Come scendere in miniera. Oggi il panorama offre prodotti di tutti i tipi, un tempo c’era un filtro a monte. Quello che arrivava giù dalla montagna era molto selezionato. Oggi bisogna dare una chance a tutti altrimenti non sembra democratico».

Il ricordo più bello che conservi.

«Per i miei 40, nel 2009, ho scritto una cosa pubblicata solo per gli amici. Dove racconto un episodio del 1973, un incontro con Frank Zappa: lì ho capito quanta strada avessi da fare. A Bologna passai una serata con lui, rivolgendogli domande di mezzapagina e ricevendo risposte a monosillabi. Quell’incontro mi ha segnato la vita, tanto che anni dopo, quando lo reincontrai in un’altra occasione, mi guardò, lui che era un fisionomista, e mi chiese “Ma noi ci siamo già visti?”. Io gli dissi di no: non volevo ricordare una serata imbarazzante per me. A questi artisti vedere fan così appassionati ma che non sapevano chiedere le cose più profonde dava fastidio».

Il libro (e quanti ne hai scritti?) a cui sei affezionato di più.

«Ne ho scritti un tot, faccio fatica a ricordare quanti. Uno mi è molto caro, non il primo scritto a 20 anni quando non dovevo farlo, una sorta di flusso di coscienza. Allora non raccontavi una storia con i dettagli, ma le tue pulsioni, le tue voglie, amori e disamori. Ricordo una bella frase di Pietro Citati, “Si cresce negando gli altri”. Quando diventi grande non ti interessa più negare nessuno perché sei sicuro di te. Io sono cresciuto tirando staffilate a dritta e a manca e poi mi sono tranquillizzato. I miei primi libri sono molto ingenui e non li ho mai voluti ristampare. Per un certo periodo non ne ho scritti più, sostenevo che i libri si fanno come i bambini, da ragazzi o da adulti maturi. Ho ripreso intorno ai cinquanta con “Paesaggi immaginari”, raccogliendo un corpus di cose scritte che avevano retto bene il tempo. È una formula che mi piace e ho rifatto qualcosa del genere un anno fa, con “Topi caldi”».

Una canzone indimenticabile.

«Andrei per album più che per canzoni. Molte cose di Bob Dylan, tra cui “Bringing It All Back Home”, oppure il primo disco di Jimi Hendrix. O anche quello di Frank Zappa: quando ho scoperto i grandi amori della mia vita, i musicisti che più mi hanno segnato».

Il personaggio a cui sei più legato.

«Ligabue di sicuro. Un personaggio che mi ha aperto le sue porte. Ci siamo stimati da subito. Ho scritto una sua biografia. Conservo bellissimi ricordi vissuti a casa sua, nella stanzetta dove sono nate le sue più grandi canzoni. Mi ha fatto sentire la prima versione di “Caro il mio Francesco”, la canzone che ha scritto ricordando “L’avvelenata”. Io venivo citato ancora, ma dalla parte del buono. Questa idea di fare la parte del cattivo e poi quella del buono mi piaceva tantissimo, come Robert Mitchum in “Il promonotorio della paura”. Poi però è uscita una versione edulcorata. Aggiungerei al Liga almeno Battiato, anche per ragioni affettive: anche se ho sette anni meno di lui “siamo cresciuti insieme”, nella Milano vogliosa di cultura nuova degli anni '70. A Gong lui era un po' il nostro artista giovane di riferimento, molto molto prima che diventasse famoso e conosciuto. Una persona sincera, uno spirito libero e travolgente: non ho mai capito come si possa immaginare che in qualche modo “ci fa”, cosa che qualcuno sospetta. Ricordo sempre con dolcezza un Capodanno a casa sua, quello del 1975, con la sua mamma e gli amici di Gong. Aggiungerei anche Stefano Bollani, grande signore e musicista perfetto sotto un mio punto di vista, quello di musica=divertimento (nel più nobile dei modi). Stefano l'ho conosciuto in tempi non sospetti, quando era un culto di pochi e sono contento di averci scommesso. Si merita tutto il successo che sta ottenendo, è davvero unico nel suo genere».

Novara è la tua città. E come spesso accade nessuno è profeta in patria. Meriteresti, eccome, il riconoscimento di Novarese dell’anno. Ti piacerebbe realizzare qualche iniziativa particolare all’ombra della Cupola?

«Dico sempre che i novaresi migliori sono quelli con l’elastico. Sapendo che la città è così avara di emozioni e ti concede poco molti se ne vanno per il mondo ma poi ritornano. È una bella tana, e va bene così».

Eleonora Groppetti

 

 

 

Avete presente quei monumenti nazionali davanti ai quali non possiamo che inchinarci? Ecco, il novarese Riccardo Bertoncelli è uno di questi. Un mostro sacro del rock mondiale. Nel senso che lo pratica da decenni non da musicista, ma come storico della musica del ‘900 e scrittore. La sua casa non può che essere il tempio della seconda arte: dischi che tappezzano le pareti, casse per diffondere note e suoni. Non chiamatelo critico, «parola che piace agli altri per sfottere, c’è malfidenza verso i critici e a questa partita non voglio partecipare», ma neppure giornalista. Docente sì, visto che è prof a un master della Cattolica: «Insegno come si è evoluta la comunicazione nel campo del rock, passando per giornali e libri».

Esordio d’obbligo. Magari non sono canzoni che toccano le tue corde ma siamo sull’attualità. Il Festival si è appena concluso. Un tuo giudizio su Sanremo 2017.

«Non ho visto una scena. Non per fare lo snobbone, ma io mi interesso di musica e da anni non è più un festival di musica. Una specie di evento, c’è la casa ma manca tutto il resto. Un rito che si ripete ogni anno, con migliaia di pellegrini. E grandi ascolti. Tipico della nostra epoca: la musica non può rimanere solo musica. È teatro, gossip… È una passerella, passa una specie di attualità. A metà degli anni Settanta il festival entrò in crisi. Un format che non funzionava più. Senza diretta tv. Poi negli anni ’80 si reinventò in altre forme. Non lo vedo da quando ero ragazzo. Ma so che a volte vincono canzoni intelligenti. Come è stato per gli Avion Travel».

Nel 2017 festeggi 48 anni di attività. Guardando indietro come leggi il tuo percorso?

«Ho una gag che voglio far diventare anche scenica. Mi sento come il marito di Claudia Cardinale in “C’era una volta il west”. Il cattivaccio viene ammazzato da Henry Fonda. Rimane la vedova che si vede recapitare una serie di cose, blocchi di legno, cemento… Che stava facendo quest’uomo? Stava costruendo una stazione di posta perché aveva compreso che lì passava il treno e che quel posto deserto lo avrebbe arricchito. Mi sento come lui perché quando avevo 17 anni ho capito d’istinto che il rock non sarebbe mai passato di moda, sarebbe diventato qualcosa di solido, un pezzo di storia del Novecento. Così mi sono posizionato lì, purtroppo senza Claudia Cardinale! Ho cominciato a scrivere un libro che allora era una cosa diversa. Oggi è facile farlo, ma ieri era una impresa per argomenti che non erano considerati degni di finire in un libro. La musica giovane sembrava una cosetta. Questo mi ha consentito di giocare straordinariamente in anticipo. Tanto che già il decennio dopo mi chiamavano il decano».

Hai iniziato quanto c’erano i dischi di vinile, ormai oggetto di collezionismo. Le musicassette sono andate in pensione. E sembrano già superati anche i cd. Un’evoluzione tecnologica non indifferente. Questione solo di forma o anche di sostanza? Quanto è cambiata la musica in questi anni? E come è cambiato il tuo mestiere?

«Il format condiziona sempre la musica. Il vinile era già un miglioramento rispetto ai 45 giri con cui ho iniziato: 3’ o 4’ e 3’ o 4’. L’album ti consentiva 20’ + 20’, il cd in teoria di più, le cassette non le ho mai prese in considerazione. Il cd ha tradito una serie di aspettative. Fare tutti dischi doppi era troppo. Perché finivano per essere pieni di riempitivi. Il cd è una miniatura, il vinile era bello e ci potevi lavorare, un prodotto di grande fascino. Una specie di favola moderma. Come è cambiato il mio lavoro? Profondamente. Sulla scrivania ho sempre avuto a portata di mano i miei strumenti, adesso questo fa ridere. Ogni computer ha un lettore di cd, quindi puoi scrivere e ascoltare. E se devo cercare qualcosa uso Spotify.

Tutto è diventato più semplice. Da giovane avevo il terrore di rimanere senza giradischi e quindi dovevo avere un doppio. Terrore che oggi non ho più. Questo se vuoi è un aspetto folkloristico del mio lavoro, cambiato anche nell’approcio delle cose: la musica oggi la ricevi rapidissimamente per via digitale.

Un altro mondo. Da giovane scrivevo i pezzi sulla macchina da scrivere, con la carta carbone per tenere la brutta e facevo un viaggio a Milano per portare le cartelle. Quando facevo il giornalista sportivo dettavo alla dimafonista. A un Giro d’Italia, forse del 1983, incontrai inviati della Stampa che avevano un fax, apparecchio che io non conoscevo. Quello è stato il primo passo. E dire che dieci anni dopo è stato pensionato. Il mestiere è cambiato a tanti livelli: come modo di produzione, di ascolto. Mi sono stancato di recensire dischi. Oggi c’è l’ansia di arrivare subito sul pezzo. I dischi una volta duravano anni, ora giorni oppure ore. C’è una offerta che spiazza. Non ho più voglia di correre dietro ai dischi che escono. Come scendere in miniera. Oggi il panorama offre prodotti di tutti i tipi, un tempo c’era un filtro a monte. Quello che arrivava giù dalla montagna era molto selezionato. Oggi bisogna dare una chance a tutti altrimenti non sembra democratico».

Il ricordo più bello che conservi.

«Per i miei 40, nel 2009, ho scritto una cosa pubblicata solo per gli amici. Dove racconto un episodio del 1973, un incontro con Frank Zappa: lì ho capito quanta strada avessi da fare. A Bologna passai una serata con lui, rivolgendogli domande di mezzapagina e ricevendo risposte a monosillabi. Quell’incontro mi ha segnato la vita, tanto che anni dopo, quando lo reincontrai in un’altra occasione, mi guardò, lui che era un fisionomista, e mi chiese “Ma noi ci siamo già visti?”. Io gli dissi di no: non volevo ricordare una serata imbarazzante per me. A questi artisti vedere fan così appassionati ma che non sapevano chiedere le cose più profonde dava fastidio».

Il libro (e quanti ne hai scritti?) a cui sei affezionato di più.

«Ne ho scritti un tot, faccio fatica a ricordare quanti. Uno mi è molto caro, non il primo scritto a 20 anni quando non dovevo farlo, una sorta di flusso di coscienza. Allora non raccontavi una storia con i dettagli, ma le tue pulsioni, le tue voglie, amori e disamori. Ricordo una bella frase di Pietro Citati, “Si cresce negando gli altri”. Quando diventi grande non ti interessa più negare nessuno perché sei sicuro di te. Io sono cresciuto tirando staffilate a dritta e a manca e poi mi sono tranquillizzato. I miei primi libri sono molto ingenui e non li ho mai voluti ristampare. Per un certo periodo non ne ho scritti più, sostenevo che i libri si fanno come i bambini, da ragazzi o da adulti maturi. Ho ripreso intorno ai cinquanta con “Paesaggi immaginari”, raccogliendo un corpus di cose scritte che avevano retto bene il tempo. È una formula che mi piace e ho rifatto qualcosa del genere un anno fa, con “Topi caldi”».

Una canzone indimenticabile.

«Andrei per album più che per canzoni. Molte cose di Bob Dylan, tra cui “Bringing It All Back Home”, oppure il primo disco di Jimi Hendrix. O anche quello di Frank Zappa: quando ho scoperto i grandi amori della mia vita, i musicisti che più mi hanno segnato».

Il personaggio a cui sei più legato.

«Ligabue di sicuro. Un personaggio che mi ha aperto le sue porte. Ci siamo stimati da subito. Ho scritto una sua biografia. Conservo bellissimi ricordi vissuti a casa sua, nella stanzetta dove sono nate le sue più grandi canzoni. Mi ha fatto sentire la prima versione di “Caro il mio Francesco”, la canzone che ha scritto ricordando “L’avvelenata”. Io venivo citato ancora, ma dalla parte del buono. Questa idea di fare la parte del cattivo e poi quella del buono mi piaceva tantissimo, come Robert Mitchum in “Il promonotorio della paura”. Poi però è uscita una versione edulcorata. Aggiungerei al Liga almeno Battiato, anche per ragioni affettive: anche se ho sette anni meno di lui “siamo cresciuti insieme”, nella Milano vogliosa di cultura nuova degli anni '70. A Gong lui era un po' il nostro artista giovane di riferimento, molto molto prima che diventasse famoso e conosciuto. Una persona sincera, uno spirito libero e travolgente: non ho mai capito come si possa immaginare che in qualche modo “ci fa”, cosa che qualcuno sospetta. Ricordo sempre con dolcezza un Capodanno a casa sua, quello del 1975, con la sua mamma e gli amici di Gong. Aggiungerei anche Stefano Bollani, grande signore e musicista perfetto sotto un mio punto di vista, quello di musica=divertimento (nel più nobile dei modi). Stefano l'ho conosciuto in tempi non sospetti, quando era un culto di pochi e sono contento di averci scommesso. Si merita tutto il successo che sta ottenendo, è davvero unico nel suo genere».

Novara è la tua città. E come spesso accade nessuno è profeta in patria. Meriteresti, eccome, il riconoscimento di Novarese dell’anno. Ti piacerebbe realizzare qualche iniziativa particolare all’ombra della Cupola?

«Dico sempre che i novaresi migliori sono quelli con l’elastico. Sapendo che la città è così avara di emozioni e ti concede poco molti se ne vanno per il mondo ma poi ritornano. È una bella tana, e va bene così».

Eleonora Groppetti

 

 

 

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