Cultura

«La mia vita con Bob Dylan»

«La mia vita con Bob Dylan»
Cultura 31 Gennaio 2017 ore 13:10

NOVARA - “Una vita con Bob Dylan”. Un titolo che è più di un titolo. È un manifesto di vita. Lui è cresciuto con la sua musica. Che racconta da appassionato, da cronista, da storico. Ma le sue non sono le memorie di un maggiordomo o di un autista, perché lui, Riccardo Bertoncelli non è mai stato al servizio di Bob Dylan. Lo dice apertamente. Anche nel suo ultimo libro, “Una vita con Bob Dylan”, appunto, edito da Giunti (176 pagine, 13 euro) che ha presentato il 26 gennaio al Circolo dei Lettori di Novara, nel complesso del Broletto, ospite della rassegna “La Città si racconta. Incontri con scrittori novaresi a San Gaudenzio”. Nel libro c’è tanto: recensioni di album, libri, film, cronache di show e indagini storiche a comporre una dichiarazione d’amore. Giornalista, critico musicale e conduttore radiofonico italiano. Pioniere nel campo dello studio del rock. Noto (anche) per la sua querelle con Francesco Guccini, querelle che gli valse una citazione ne “L’avvelenata”. Ma, soprattutto, Bertoncelli è novarese. Lo incontro tra vinili, cd e libri. Nel suo regno. Mi chiede “Ma tu sei dylaniana?”. Attimi di smarrimento. «Insomma, veramente sono cresciuta con le canzoni di Battiato…». Ed ecco che anche Battiato ha un suo perché davanti al libro. «Battiato ha potuto raccontare i fatti suoi perché era successo qualcosa nella canzone italiana. Prima non c’era la libertà di parlare degli argomenti che uno voleva né di scrivere in un modo particolare: era un mondo molto piccolo in cui la canzone veniva considerata canzonetta. Anche Battiato, che è un dylaniano relativo, ha subito questa lezione impartita da Dylan. Tutti gli sono andati dietro, dai Beatles ai Rolling Stones ai grandi gruppi rock e pop. Al di là delle prime canzoni, che erano di protesta, Dylan ha inventato della poesia sonora. Sulla sua produzione degli ultimi tempi ho molti dubbi anch’io ma se tu dai a un personaggio così il Nobel per quello che ha significato nel cambiare il mondo della canzone allora vai sul sicuro. Si fa fatica a spiegare questo alle generazioni più giovani, ma la mia, che ha vissuto gli anni ‘60 in diretta, è stata folgorata: io parlo di lui come di una bomba atomica. Che poi il Nobel arrivi in ritardo di 30, 40 anni è un’altra questione. Ed è anche vero che ha fatto un po’ di tutto per mostrarsi scorbutico e antipatico, fino a non ritirare il Nobel: lui che negli ambienti ufficiali si è sempre trovato a disagio». Il libro ha una storia strana: «Scrivo di Dylan da oltre 40 anni, la prima cosa è del 1972, l’introduzione a una biografia, avevo vent’tanni, per la prima volta il mio nome su un libro. Con gli anni mi sono accorto di avere tanto materiale da parte, pensavo di pubblicarlo un giorno. Io curo la collana musicale della Giunti da anni: alla notizia del Nobel la casa editrice mi ha detto “Ributtiamo fuori quello che abbiamo di Dylan?”». Invece poi è nato qualcosa di più corposo. «Abbiamo fatto una volata. Mi sono messo a cercare alcuni miei articoli, anche alla Biblioteca Nazionale di Firenze. Una storia nella storia. Ed è venuto fuori da solo il libro. Alcune cose le ho scritte in differita, altre in diretta, forse le più interessanti, tra cui la stroncatura di un disco nel 1976, cosa che mi creò qualche problema. La casa discografica mi bandì per anni! Oggi Dylan è considerato un venerato maestro, ma all’epoca non era così. E questo colpisce. C’è una copertina di Re Nudo degli anni ‘70, con strillo in copertina: “Bob Dylan porco e capitalista”. C’era l’idea che avesse tradito gli ideali. Oggi invece è indiscutibile. Nel libro c’è un quadro completo e sono contento del risultato. Io ho vissuto con lui dal 1967 a oggi, un bellissimo pezzo di vita». Come lui nessuno allora? «Per l’importanza che ha avuto sì, quei nomi come Dylan e Beatles, che tutti conoscono anche se magari non li seguono, quei nomi che parlavano a tutti non arriveranno più. Oggi il mercato è frammentato e ci sono le tribù, migliaia di piccoli idoli, fenomeni effimeri, l’ecumenismo degli anni Sessanta è sparito. Non siamo più nel campo degli eroi. Il fatto di essere raccontati su carta e per passaparola ha aiutato il mito. Che cresce nella penombra. La luce rovina. Gli anni Sessanta e Settanta, gli ultimi in penombra, saranno sempre più circondati da un alone magico».
Eleonora Groppetti

NOVARA - “Una vita con Bob Dylan”. Un titolo che è più di un titolo. È un manifesto di vita. Lui è cresciuto con la sua musica. Che racconta da appassionato, da cronista, da storico. Ma le sue non sono le memorie di un maggiordomo o di un autista, perché lui, Riccardo Bertoncelli non è mai stato al servizio di Bob Dylan. Lo dice apertamente. Anche nel suo ultimo libro, “Una vita con Bob Dylan”, appunto, edito da Giunti (176 pagine, 13 euro) che ha presentato il 26 gennaio al Circolo dei Lettori di Novara, nel complesso del Broletto, ospite della rassegna “La Città si racconta. Incontri con scrittori novaresi a San Gaudenzio”. Nel libro c’è tanto: recensioni di album, libri, film, cronache di show e indagini storiche a comporre una dichiarazione d’amore. Giornalista, critico musicale e conduttore radiofonico italiano. Pioniere nel campo dello studio del rock. Noto (anche) per la sua querelle con Francesco Guccini, querelle che gli valse una citazione ne “L’avvelenata”. Ma, soprattutto, Bertoncelli è novarese. Lo incontro tra vinili, cd e libri. Nel suo regno. Mi chiede “Ma tu sei dylaniana?”. Attimi di smarrimento. «Insomma, veramente sono cresciuta con le canzoni di Battiato…». Ed ecco che anche Battiato ha un suo perché davanti al libro. «Battiato ha potuto raccontare i fatti suoi perché era successo qualcosa nella canzone italiana. Prima non c’era la libertà di parlare degli argomenti che uno voleva né di scrivere in un modo particolare: era un mondo molto piccolo in cui la canzone veniva considerata canzonetta. Anche Battiato, che è un dylaniano relativo, ha subito questa lezione impartita da Dylan. Tutti gli sono andati dietro, dai Beatles ai Rolling Stones ai grandi gruppi rock e pop. Al di là delle prime canzoni, che erano di protesta, Dylan ha inventato della poesia sonora. Sulla sua produzione degli ultimi tempi ho molti dubbi anch’io ma se tu dai a un personaggio così il Nobel per quello che ha significato nel cambiare il mondo della canzone allora vai sul sicuro. Si fa fatica a spiegare questo alle generazioni più giovani, ma la mia, che ha vissuto gli anni ‘60 in diretta, è stata folgorata: io parlo di lui come di una bomba atomica. Che poi il Nobel arrivi in ritardo di 30, 40 anni è un’altra questione. Ed è anche vero che ha fatto un po’ di tutto per mostrarsi scorbutico e antipatico, fino a non ritirare il Nobel: lui che negli ambienti ufficiali si è sempre trovato a disagio». Il libro ha una storia strana: «Scrivo di Dylan da oltre 40 anni, la prima cosa è del 1972, l’introduzione a una biografia, avevo vent’tanni, per la prima volta il mio nome su un libro. Con gli anni mi sono accorto di avere tanto materiale da parte, pensavo di pubblicarlo un giorno. Io curo la collana musicale della Giunti da anni: alla notizia del Nobel la casa editrice mi ha detto “Ributtiamo fuori quello che abbiamo di Dylan?”». Invece poi è nato qualcosa di più corposo. «Abbiamo fatto una volata. Mi sono messo a cercare alcuni miei articoli, anche alla Biblioteca Nazionale di Firenze. Una storia nella storia. Ed è venuto fuori da solo il libro. Alcune cose le ho scritte in differita, altre in diretta, forse le più interessanti, tra cui la stroncatura di un disco nel 1976, cosa che mi creò qualche problema. La casa discografica mi bandì per anni! Oggi Dylan è considerato un venerato maestro, ma all’epoca non era così. E questo colpisce. C’è una copertina di Re Nudo degli anni ‘70, con strillo in copertina: “Bob Dylan porco e capitalista”. C’era l’idea che avesse tradito gli ideali. Oggi invece è indiscutibile. Nel libro c’è un quadro completo e sono contento del risultato. Io ho vissuto con lui dal 1967 a oggi, un bellissimo pezzo di vita». Come lui nessuno allora? «Per l’importanza che ha avuto sì, quei nomi come Dylan e Beatles, che tutti conoscono anche se magari non li seguono, quei nomi che parlavano a tutti non arriveranno più. Oggi il mercato è frammentato e ci sono le tribù, migliaia di piccoli idoli, fenomeni effimeri, l’ecumenismo degli anni Sessanta è sparito. Non siamo più nel campo degli eroi. Il fatto di essere raccontati su carta e per passaparola ha aiutato il mito. Che cresce nella penombra. La luce rovina. Gli anni Sessanta e Settanta, gli ultimi in penombra, saranno sempre più circondati da un alone magico».
Eleonora Groppetti

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