La voce disperata della Grande Guerra

La voce disperata della Grande Guerra
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NOVARA - La Grande Guerra dista da noi ormai un secolo ma i suoi valori, le tragedie e lo sgomento che vissero milioni di nostri connazionali sono ancora tenuti in vita dal ricordo: ad alimentarlo provvedono operazioni culturali come quella a cui abbiamo assistito. Al Teatro Coccia di Novara giovedì sera è andata in scena la prima nazionale de “La Paura”, opera lirica in un unico atto scritta e diretta da Orazio Sciortino su un racconto di Federico De Roberto (libretto di Alberto Mattioli). La regia è affidata a una grande signora del teatro italiano, Simona Marchini. La trama è semplice: trincea italiana, pace apparente rotta da una bomba austriaca che uccide un nostro soldato mentre tenta di raggiungere il posto di vedetta. Il tenente Alfani, capoposto, invia, con non pochi risentimenti compensati dal dovere di obbedire a ordini superiori, altri uomini con l’intento di occupare la posizione e, uno a uno, i suoi periranno, finché l’eroe di guerra Morana si rifiuterà di obbedire all’ordine e, per salvare l’onore, si sparerà nella trincea. Sipario. Dicevamo ricordo e aggiungiamo contemporaneità: è raro assistere a delle “prime” affidate a giovani compositori come nel caso di Sciortino e questo è sicuramente un vanto per un teatro di tradizione, di provincia ma non provinciale. Quindi rompiamo gli schemi e ci tuffiamo, elmetto e schioppo, in questa storia descritta da una modernità sonora inusuale per il palcoscenico novarese. La scena è fissa e sembra un grande presepe, laico, lacerato, asettico: le montagne oscure sullo sfondo, la trincea descritta nella sua quotidianità degli oggetti, realistica più che verosimile. Luci quanto basta a sottolineare una sostanziale stasi. È un mondo di commilitoni, ognuno con il suo idioma, è uno spaccato dell’Italia di quegli anni, unita sulla carta ma ancora frammentata culturalmente nei suoi poli regionali. Poi c’è la gioventù, la famiglia, l’onore, la resa, il dovere: temi sfiorati, che emergono a livello testuale e che la musica imbriglia in uno stato quasi ipnotico, squarciato da lampi di granata o campane a morto. La composizione di Sciortino è un lavoro complesso. Una forma aperta, riconducibile però a sezioni marcatamente riconoscibili nonostante gli elementi compositivi utilizzati siano inorganici. Di forte impatto le timbriche che riescono a emergere da un substrato acustico costruito con una tecnica notevole, artificiale: seducenti gli impasti definiti dalla sovrapposizione di timbri molto particolari; curioso l’utilizzo degli strumenti nelle regioni acute con lente progressioni ascendenti; espressiva la voce delle percussioni dall’effetto grand-guignol; interessante la selezione delle voci pure per descrivere intere aree e il contrappunto del coro con la voce registrata. La linea del canto è lontana dal puro lirismo ma assume, rispetto all’orchestra, una sua indipendenza: non recupera e giustifica mai gli intervalli, si muove liberamente ma dentro a spazi noti, in un ambito circoscritto. Il piacere resta sicuramente un appagamento dettato dall’intelletto: in questa musica abbiamo apprezzato la tecnica e il colore. Un limite, a nostro avviso, lo possiamo trovare nell’altalenante aderenza al “teatro”: sono suoni che parlano al cervello e quasi mai alla pancia, mancando di descrizione e sottolineatura e la gestione dei tempi “scenici” non è sempre adeguata. Questo in alcuni frangenti. Nel senso contrario invece sottolineiamo la bellezza musicale di particolari momenti, come l’entrata in scena del soldato Zocchi, descritta da un pianissimo carico di aspettative o il grande assolo di violoncello che accompagna la scena del soldato Ricci, per citare i più evidenti. Il risultato complessivo ha abbastanza forza nel descrivere la desolazione sentimentale dei presenti, lo stato anaffettivo e lo scoramento che li abita, la vacuità del momento, l’irreparabile. La compagnia di canto consta di quattro voci: il tenente Alfani è interpretato da Blagoj Nacoski, bravo a mantenere la sua linea vocale nonostante mancassero molti riferimenti e appoggi nella stesura orchestrale. È anche il personaggio più articolato e scenicamente ha una resa convincente. Gli altri interpreti hanno ruoli minori: si tratta del sergente Borga, il lombardo (canta Tiziano Castro); del caporale campano (voce di Daniele Cusari, novarese) e del soldato Ricci (impersonato da Vladimir Reutov). A livello registico tutti si muovono con coerenza, come corpi vivi ma privi di “vita”. Hanno gesti misurati, quasi inevitabili. L’Orchestra, diretta dallo stesso Sciortino, è quella dei Talenti Musicali: mai nome fu più azzeccato: diciamo perfetti e il lavoro da fare era da straordinario, da sudori freddi. Gli applausi dimostrano l’apprezzamento del pubblico. Ora non resta che dare continuità a questo progetto, dalla grande forza aggregante sul territorio e in grado di stimolare al nuovo gli ascoltatori. 

Diego Ragazzo

NOVARA - La Grande Guerra dista da noi ormai un secolo ma i suoi valori, le tragedie e lo sgomento che vissero milioni di nostri connazionali sono ancora tenuti in vita dal ricordo: ad alimentarlo provvedono operazioni culturali come quella a cui abbiamo assistito. Al Teatro Coccia di Novara giovedì sera è andata in scena la prima nazionale de “La Paura”, opera lirica in un unico atto scritta e diretta da Orazio Sciortino su un racconto di Federico De Roberto (libretto di Alberto Mattioli). La regia è affidata a una grande signora del teatro italiano, Simona Marchini. La trama è semplice: trincea italiana, pace apparente rotta da una bomba austriaca che uccide un nostro soldato mentre tenta di raggiungere il posto di vedetta. Il tenente Alfani, capoposto, invia, con non pochi risentimenti compensati dal dovere di obbedire a ordini superiori, altri uomini con l’intento di occupare la posizione e, uno a uno, i suoi periranno, finché l’eroe di guerra Morana si rifiuterà di obbedire all’ordine e, per salvare l’onore, si sparerà nella trincea. Sipario. Dicevamo ricordo e aggiungiamo contemporaneità: è raro assistere a delle “prime” affidate a giovani compositori come nel caso di Sciortino e questo è sicuramente un vanto per un teatro di tradizione, di provincia ma non provinciale. Quindi rompiamo gli schemi e ci tuffiamo, elmetto e schioppo, in questa storia descritta da una modernità sonora inusuale per il palcoscenico novarese. La scena è fissa e sembra un grande presepe, laico, lacerato, asettico: le montagne oscure sullo sfondo, la trincea descritta nella sua quotidianità degli oggetti, realistica più che verosimile. Luci quanto basta a sottolineare una sostanziale stasi. È un mondo di commilitoni, ognuno con il suo idioma, è uno spaccato dell’Italia di quegli anni, unita sulla carta ma ancora frammentata culturalmente nei suoi poli regionali. Poi c’è la gioventù, la famiglia, l’onore, la resa, il dovere: temi sfiorati, che emergono a livello testuale e che la musica imbriglia in uno stato quasi ipnotico, squarciato da lampi di granata o campane a morto. La composizione di Sciortino è un lavoro complesso. Una forma aperta, riconducibile però a sezioni marcatamente riconoscibili nonostante gli elementi compositivi utilizzati siano inorganici. Di forte impatto le timbriche che riescono a emergere da un substrato acustico costruito con una tecnica notevole, artificiale: seducenti gli impasti definiti dalla sovrapposizione di timbri molto particolari; curioso l’utilizzo degli strumenti nelle regioni acute con lente progressioni ascendenti; espressiva la voce delle percussioni dall’effetto grand-guignol; interessante la selezione delle voci pure per descrivere intere aree e il contrappunto del coro con la voce registrata. La linea del canto è lontana dal puro lirismo ma assume, rispetto all’orchestra, una sua indipendenza: non recupera e giustifica mai gli intervalli, si muove liberamente ma dentro a spazi noti, in un ambito circoscritto. Il piacere resta sicuramente un appagamento dettato dall’intelletto: in questa musica abbiamo apprezzato la tecnica e il colore. Un limite, a nostro avviso, lo possiamo trovare nell’altalenante aderenza al “teatro”: sono suoni che parlano al cervello e quasi mai alla pancia, mancando di descrizione e sottolineatura e la gestione dei tempi “scenici” non è sempre adeguata. Questo in alcuni frangenti. Nel senso contrario invece sottolineiamo la bellezza musicale di particolari momenti, come l’entrata in scena del soldato Zocchi, descritta da un pianissimo carico di aspettative o il grande assolo di violoncello che accompagna la scena del soldato Ricci, per citare i più evidenti. Il risultato complessivo ha abbastanza forza nel descrivere la desolazione sentimentale dei presenti, lo stato anaffettivo e lo scoramento che li abita, la vacuità del momento, l’irreparabile. La compagnia di canto consta di quattro voci: il tenente Alfani è interpretato da Blagoj Nacoski, bravo a mantenere la sua linea vocale nonostante mancassero molti riferimenti e appoggi nella stesura orchestrale. È anche il personaggio più articolato e scenicamente ha una resa convincente. Gli altri interpreti hanno ruoli minori: si tratta del sergente Borga, il lombardo (canta Tiziano Castro); del caporale campano (voce di Daniele Cusari, novarese) e del soldato Ricci (impersonato da Vladimir Reutov). A livello registico tutti si muovono con coerenza, come corpi vivi ma privi di “vita”. Hanno gesti misurati, quasi inevitabili. L’Orchestra, diretta dallo stesso Sciortino, è quella dei Talenti Musicali: mai nome fu più azzeccato: diciamo perfetti e il lavoro da fare era da straordinario, da sudori freddi. Gli applausi dimostrano l’apprezzamento del pubblico. Ora non resta che dare continuità a questo progetto, dalla grande forza aggregante sul territorio e in grado di stimolare al nuovo gli ascoltatori. 

Diego Ragazzo

 

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