Teatro

Stasera al Faraggiana in scena Luigi Lo Cascio con Gilgamesh

Il famoso attore, in scena con una storia complessa densa di temi esistenziali, si racconta in un'intervista a 360 gradi

Stasera al Faraggiana in scena Luigi Lo Cascio con Gilgamesh
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Una storia antica, sconosciuta ai più, tre amici sul palco, una narrazione che chiede di mettersi in ascolto, raccontata da Luigi Lo Cascio, Vincenzo Pirrotta e Giovanni Calcagno.

Lo spettacolo

Martedì 21 febbraio alle 21 al Faraggiana va in scena «Gilgamesh – L’epopea di colui che tutto vide», testo e regia di Giovanni Calcagno, musiche originali di Andrea Rocca e consulenza scientifica di Luca Peyronel.
Circa due secoli fa, negli scavi della biblioteca di Assurbanipal a Ninive, gli archeologi portarono alla luce una serie di tavolette. Quando fu decifrata la scrittura cuneiforme, esse rivelarono il titolo di un poema: «Di colui che vide le profondità e le fondamenta della terra». Gilgamesh è il più antico poema del mondo. E’ la storia di un giovane re che, dopo aver sperimentato il dolore per la morte del migliore amico, lascia il trono per andare alla ricerca del segreto della vita eterna. Alla fine del suo peregrinare, dopo aver interrogato l’unico uomo sopravvissuto al Diluvio, torna in patria con la certezza che il destino dell’uomo è di essere mortale. II viaggio di Gilgamesh ai confini del mondo, da un punto di vista eroico, è un completo fallimento, ma la sua sconfitta diventa un nuovo punto di comprensione delle cose della vita.

Intervista

Una storia complessa che contiene temi esistenziali: morte e immortalità, amicizia, dolore, sconfitta che si trasforma in comprensione della vita. Come raccontate tutto questo a teatro?

Luigi Lo Cascio ride: «Ha già detto tutto. E’ così. Semplice! Io non sapevo nulla di questa storia finché non sono stato coinvolto da Giovanni Calcagno. Mi fermavo a Omero, alle tragedie greche. Questo poema li precede: si tratta del primo testo letterario arrivato a noi, un’epopea e non un documento di tipo amministrativo o contabile. Risale al 1.000 a.C. ma è l’esito di una tradizione di racconti del 2.500 a.C.. E’ antico e prezioso. Il regista si è messo in questa storia 20 anni fa, durante un viaggio in Anatolia, si è appassionato, diventando amico di archeologi, studiando. Ha chiamato Vincenzo e me per amicizia e fratellanza: a turno abbiamo recitato negli spettacoli degli altri: in questo, il racconto della vicenda è integrale perché ne ripercorriamo tutte le tappe. E’ un racconto e vuole essere molto semplice: certo occorre da parte del pubblico la disposizione all’ascolto di nomi che non si conoscono, luoghi che non si conoscono. E’ un viaggio di un’ora e mezza e il pubblico deve sedersi dicendosi “vediamo cosa succede”».

Volete trasmettere un messaggio?

«L’ambito concettuale, quello dei valori e dei significati è lasciato al singolo spettatore. Ognuno può effettuare una ricognizione dentro di sé sui temi trattati: il dolore, la perdita di un amico, l’accettazione della mortalità. Fornire dei messaggi è sempre antipatico se vuol dire farsi garante di valori dall’alto di un palcoscenico come se si possedessero delle verità. Lo spettacolo è la trasmissione di una storia, paragonabile alle fiabe antiche che parlano di per sè. Ci sarà chi si lascerà suggestionare o emozionare dalla profonda amicizia tra i due eroi, chi troverà somiglianza o lontananza con la propria sensibilità. Interessante è il vedere illuminato di luce nuova ciò che magari noi trascuriamo. In fondo è ciò che compiono i poeti: fanno affiorare sentimenti che l’umanità, spesso oscurata dalle preoccupazioni prosaiche, non coglie».

Si legge anche una diversa definizione dell’essere eroe rispetto alla cultura greca, è così?

«L’eroismo non è legato alla supremazia fisica, ma all’accettazione. Il ritorno a casa del sovrano, un ritorno da persona semplice e umile, non è una sconfitta. Non è più il sé a dare gloria, ma la presenza degli altri, la città, ciò che si compie insieme agli altri».

Come risponde il pubblico a un testo come questo in un momento in cui sembra che tutti chiedano leggerezza e “cabaret”?

«Per il cabaret può bastare al bar o you tube. Anche io mi faccio grasse risate. Andare a teatro è un rito diverso: ci sono sul palco degli altri che soffrono per noi, un qualcuno che va in avanscoperta per noi; è un esperimento su di sé senza patire il dolore reale. A teatro emergono bellezza, vivacità, vitalità. Da teatro me ne vado esaltato, con un palpito diverso. Una volta terminato il “cabaret” si riprecipita nel gorgo della vita, dopo il teatro qualcosa invece cambia».

Teatro, cinema e televisione: lei ha interpretato ruoli impegnativi e impegnati. Una scelta precisa?

«Qualche anno fa, mi hanno invitato all’università di Aiaccio per un convegno dal titolo “Luigi Lo Cascio: attore impegnato”. Ho risposto che sarei andato solo se avessi potuto usare il tempo a disposizione per scardinare questa convinzione. Io sono totalmente disimpegnato, non ho un movente edificante. Mi chiamano, mi piacciono le proposte, mi appassiono, senza premeditazione. Ho recitato anche in horror e commedie e non se le ricorda nessuno: forse funziono meglio in altro, anche se ho iniziato con un gruppo che si chiamava “Le ascelle” e facevamo pantomime comiche e in Accademia ero un caratterista. Sono grato agli autori che mi hanno scelto per ruoli importanti, ma non sono un esperto. Ho interpretato Peppino Impastato, posso parlare di lui, solo di lui, non di mafia. Ho recitato in “Noi credevamo” che racconta l'Italia risorgimentale attraverso le vite di tre giovani rivoluzionari, ma non sono esperto di storia, conosco solo il mio personaggio».

Prossimi progetti?

«A metà marzo esce “Delta”, un film ambientato in Emilia Romagna, sul delta del Po, di Michele Vannucci, con me e Alessandro Borghi. Partendo da una storia vera, racconta lo scontro tra comunità per lo sfruttamento terribile del fiume. I miei personaggi sono giganti rispetto a me. Ho però un progetto a cui tengo moltissimo e che davvero mi rappresenta ed è un libro, in uscita ad aprile per Feltrinelli. Brevi racconti, con un fondo di umorismo, come delle pillole di sorriso, un antidoto».

Come trova il tempo per tutto?

«Un racconto, se hai l’idea, ci vogliono tre ore a scriverlo. D’altra parte, se penso ai medici della mia generazione, quelli con cui ho iniziato la facoltà di Medicina prima di dedicarmi ad altro, erano degli umanisti: leggevano, amavano l’arte, la poesia, raccontavano storie. Oggi sembra che ci debba essere una divisione tra le professioni scientifiche e il resto. Così per gli attori. Eppure un attore è immerso nelle parole dalla mattina alla sera le deve sostenere, ripetere, anche quelle che appartengono ai grandi. Per fortuna ho trovato il tempo di scrivere e sì... mi sbilancio... lo consiglio questo libro. Sui film ognuno ai suoi gusti e non dico nulla, ma questo libro... sono io».

Intervista a cura di Erica Bertinotti

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