Delitto nei boschi di Pombia: il mandante ricorre in Cassazione
26 anni di carcere all’imprenditore gelese Giuseppe Cauchi
Dopo che i giudici della Corte d’Assise e di Appello di Torino il 29 aprile dello scorso anno avevano inflitto 26 anni di carcere all’imprenditore gelese Giuseppe Cauchi, 55 anni (precedentemente assolto) perché ritenuto essere il mandante del delitto di Pombia, quando la sera del 4 aprile 2017 era stato ucciso in modo brutale il 33enne operaio Matteo Mendola, nei giorni scorsi si è appreso che i difensori hanno giocato – come anticipato dal nostro giornale in precedenza – la “carta” del terzo grado.
I fatti
Gli avvocati Flavio Sinatra e Cosimo Palumbo hanno, infatti, presentato ricorso in Cassazione. L’obiettivo è quello di far annullare la sentenza dal terzo grado di giudizio e tornare, dunque, a un nuovo processo di Appello. L’appuntamento a Roma, salvo imprevisti, è stato fissato a maggio. Per il secondo grado, i cui giudici avevano sostanzialmente dato credito alle varie testimonianze rese dal killer, ad inchiodare Cauchi vi sarebbero i tabulati telefonici e, soprattutto, la pistola utilizzata per ammazzare. Un’arma da fuoco che sarebbe stata custodita, così sarebbe emerso, in una cassaforte dell’ufficio proprio dell’imprenditore gelese.
Non soltanto. Su suggerimento dello stesso Cauchi, killer e complice avrebbero effettuato un sopralluogo nei boschi dove poi hanno effettivamente massacrato Mendola, al fine di non lasciare nulla di intentato. Il fatto di cronaca, va ricordato, era accaduto in frazione San Giorgio, località Baraggia, di Pombia. Quel martedì sera il bustese Antonio Lembo, che sta scontando 30 anni in carcere, ma che ha fatto ricorso, e il suo complice Angelo Mancino anch’esso condannato in abbreviato a 30 anni, ma in via definitiva –, avevano attirato Mendola nei boschi del Novarese con una scusa (“andiamo a compiere dei furti”) e con l’obiettivo di farlo fuori. E così avevano fatto. Il trentatreenne operaio di Gela era stato prima raggiunto da alcuni colpi di pistola, e poi era stato finito per mezzo di una vecchia batteria d’auto trovata sul posto e utilizzata per fracassargli il cranio.
Il corpo abbandonato in una fabbrica dismessa era stato trovato la mattina seguente da un pensionato che stava facendo una passeggiata. A ricostruire il movente e risalire grazie a cellule telefoniche e sistemi di videosorveglianza a Lembo e Mancino, erano stati i carabinieri del Nor di Arona. Stando a quanto aveva raccontato lo stesso Lembo, era stato proprio l’imprenditore Cauchi a dare l’ordine di uccidere Mendola, a quanto sembra per un regolamento di conti legato al traffico di droga, o forse anche per saldare un presunto debito che il fratello aveva contratto con Cauchi lavorando nei suoi cantieri.